Il fascino dei kōan Zen: tra guerrieri e contadini
- Alessia Notari

- 16 lug
- Tempo di lettura: 2 min

Nella tradizione Zen, antica e affascinante, esiste uno strumento tanto semplice quanto potente: il kōan. Si tratta di brevi racconti, frasi paradossali o domande che il maestro rivolge al discepolo per scuoterlo, per fargli perdere i riferimenti abituali della mente e aprire uno spiraglio verso una comprensione più profonda e immediata della realtà. Lo Zen, infatti, non punta alla spiegazione, ma all’esperienza diretta. E il kōan è una chiave che non apre con la logica, ma con il silenzio interiore.
Esistono due grandi scuole Zen: quella Rinzai, che ha influenzato profondamente la formazione spirituale dei samurai giapponesi, e quella Sōtō, più meditativa, silenziosa e più diffusa tra i contadini e adatta agli strati popolari. È soprattutto la scuola Rinzai a utilizzare i kōan come mezzo per provocare il risveglio spirituale.
Ma il cuore di entrambe le vie resta lo stesso:
interrompere il chiacchiericcio mentale e
permettere alla verità di emergere, senza mediazioni
Il maestro pone al discepolo domande che sfuggono a ogni risposta razionale, come ad esempio: “Qual era il tuo volto prima di nascere?” oppure “Quando il ramo si spezza, dove va il canto dell’uccello?”. Il discepolo resta immerso in queste domande per giorni, settimane, talvolta anni. Non deve rispondere… ma lasciarsi trasformare dalla domanda stessa. È come se il kōan scendesse nelle profondità dell’essere, sciogliendo le resistenze dell’ego e aprendolo a una nuova visione.
Un kōan restato impresso nella mia memoria è quello del "secchio senza luna": un giorno, un monaco stava attingendo acqua da un pozzo con un secchio. La luna si rifletteva sull’acqua dentro il secchio. Quando, improvvisamente, il fondo del secchio si staccò, l’acqua scivolò via… e il riflesso della luna scomparve. In quel preciso momento, il monaco si illuminò.
La mente è come quel secchio. Finché cerchiamo di trattenere, di contenere, di possedere la verità, essa ci appare solo come riflesso. Ma quando il fondo si rompe - quando ci arrendiamo, lasciamo andare, smettiamo di controllare - allora possiamo percepire direttamente la realtà. Non più il riflesso, ma la luce stessa.
Forse la nostra anima non ha bisogno di capire tutto.
Forse ha solo bisogno di lasciarsi andare, come l’acqua che ritorna alla terra.
Perché in quell’abbandono, in quel vuoto improvviso, si manifesta la pienezza più grande.
p.s.: come usare i kōan oggi:
Pratica quotidiana: ripeti il kōan nella meditazione, consentendo alla mente di giocare con la contraddizione.
Momenti di riflessione: richiamalo durante la giornata, per ricordarti di lasciare andare ciò che pesa.
Spunti di crescita: le tradizioni Zen (sia Rinzai che Sōtō) hanno usato i kōan per promuovere la consapevolezza del momento presente.
n.d.r.: ti consiglio al riguardo il libro: "Le più belle storie Zen. Le 100 storie Zen più belle di sempre" a cura di Antonio Zanetti
Per chi cerca strumenti di risveglio e consapevolezza: #ilprontosoccorsodellanima



